AD ORAZIO

(Ode saffica, 1885. Tradotto dall'autore.)

Principe affabil de la dotta lira,

nume custode della forma eletta,

tu che d’alloro ti cingesti e mirto

duplice serto:

 

soffri che adesso la mia mano audace

prenda un momento quella che, auspicata,

tu trasferisti al liminar di Roma

citara greca.

 

Ruvido ed aspro sulle eolie corde

evvi il linguaggio di mia patria dura;

nobile pur vi sonera: mia patria

figlia è di Roma.

 

Figlia di Roma per la mente e il sangue,

chiara e robusta qual la madre antica,

serba nei solchi ceneri romane,

seme di gloria.

 

Sì, in queste glebe il contadino spesso

ossa ci scava con gioielli e numi,

armi e talvolta tessere portanti

l’aquila augusta.

 

Pure gentile è questo suol. Vivrebbe

senza languire la tua ellena Musa

su questa sponda, fra l’azzurro mare

delle Sirene.

 

Isola è bella, dove il sacro Febo

nitido brilla, e di possenti succhi

prodigo, sparge coi racemi lieti

l’atica oliva.

 

Lasciami dunque rievocarci adesso

classiche forme, e coll’ingenuo volto

vedassi arrider la tua eterna Musa

sulla mia terra.

 

Ora che folle l’invocata Erinne

febbre ai poeti compartisce, unghiando

l’arpa dolente, e fra lettame stilla

fonti d’assenzio,

 

oh!, come bramo ritrovar le chiare

dolci fontane del Parnaso antico!…

Colla tua bella cesellata coppa

lasciami bere.

 

Lasciami prender quel sapore antico

ch’empie i tuoi carmi, perdurando in essi

come falerno costodito in fondo

d’anfore adorne.

 

Nettare è questo che, sforzando il cuore,

febbre non dona d’insaniente ebbrezza:

porge la calma dell’Olimpo, l’alta

forza tranquilla.

 

Chi tal bevanda assaporì non cerca

l’oro nè l’armi nè il dominio incerto:

l’arte è sua vita, che fra gaudî e pene

serba sicura.

 

Altri il palazzo ambiscan, ove sono

pallide cure, idropescenti brame,

perfidi insonni che in cuscin di piume

mettono spine.

 

Vadano al foro, ove l’infida turba

grida e si spinge a disputar le prede

che la Fortuna nell’umana polve

lancia per giouco.

 

Possa io nel’ombra de’ paterni boschi

senno e bellezza radunar nell’opra,

senno e bellezza onde facesti, Orazio,

degna alleanza.

 

Sì, ne’ tuoi carmi, sorridente il senno

guida la danza di gentile strofe,

come Sileno che, buon vecchio, mena

coro di ninfe.

 

Esse dintorno, come fan corona,

muovono al ritmo i cadenziosi piedi;

ridon le Grazie, ed un ambrosio odore

l’aria ne spande.


 

MICHELANGELO

(Sonetto scritto nel 1899. Tradotto da Frank Z. Llobera.)

Guardatelo austero, pallido il sembiante,

corrucciata la fronte di vigore toscano,

con il suo scalpello da ciclope in mano,

nel profondo dell’anima la visione di Dante.

 

Artista della forma palpitante

e del profondo cuore cristiano,

trascina per la vita il sovrano

dolore di ogni spirito gigante.

 

La sua norma è l’unità grandiosa e forte:

è il genio latino che, umanizzato,

regna nelle arti, le sottomette e doma.

 

È lui che, degno di così alta sorte,

con la cupola eccelsa ha coronato

la tua fronte colossale, oh madre Roma!